Nella corsa mondiale al vaccino anti-Covid l’importante non è partecipare, ma vincere. Lo sanno bene i Paesi più ricchi, che con uno scatto felino si sono già accaparrati oltre due miliardi di dosi, stipulando accordi commerciali che hanno bruciato sul tempo i Paesi più poveri col rischio di indebolire la lotta globale alla pandemia. A ‘cronometrare’ gli sprint in questa sfida impari è un articolo sulla rivista Nature, in cui vengono sottolineate anche le difficoltà incontrate dalle iniziative internazionali nate proprio per garantire un accesso equo per tutti.
In testa al gruppo di sfidanti al momento spicca la Gran Bretagna, che ha già messo le mani su 340 milioni di dosi, l’equivalente di cinque somministrazioni pro capite, un record mondiale. Al secondo posto seguono gli Stati Uniti, che a metà agosto si erano già assicurati 800 milioni di dosi di almeno sei vaccini in via di sviluppo, con un’opzione per l’acquisto di un altro miliardo di dosi. A ruota seguono i Paesi dell’Unione europea (che stanno acquistando i vaccini in gruppo) e il Giappone, con altre centinaia di milioni di dosi. Sono tutti vaccini ordinati a scatola chiusa, perché “ancora non abbiamo prove provate della loro efficacia”, ricorda l’infettivologo Stefano Vella, docente di Salute Globale all’Università Cattolica di Roma.
“Anche quello cinese e quello russo, che hanno ottenuto una sorta di pre-registrazione nei rispettivi Paesi, possono aver dimostrato al massimo la loro sicurezza e immunogenicità, ma non la capacità protettiva, perché per farlo bisogna condurre test su migliaia di persone”. Al momento a fare gola sul mercato sono soprattutto i vaccini in sperimentazione clinica sull’uomo, 31 secondo quanto riporta l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): tra questi ci sono anche l’italiano Reithera, che ha cominciato i test lunedì scorso, e il vaccino di Astra Zeneca e Oxford che coinvolge l’Irbm di Pomezia, mentre quello della Takis di Castel Romano è tra i 142 candidati ancora in fase preclinica. “Penso che purtroppo sia inevitabile che i Paesi più ricchi cerchino di comprare i vaccini, ma pure loro sanno che c’è un bisogno globale che non può essere ignorato”, sottolinea Vella. “La pandemia è una sfida di salute globale e pensare solo a quello che accade a casa propria è una strategia miope che si rivelerà perdente. Covid va spento in tutto il mondo, oppure non si spegnerà mai. Io posso vaccinare tutta la popolazione del mio Paese, ma il virus continuerà a circolare nel resto del mondo continuando a rappresentare una minaccia.Tanto più – aggiunge l’esperto – se si dimostrerà fondata l’ipotesi che i vaccini non diano un’immunità perpetua ma solo per un periodo limitato di tempo”. Anche per questo il direttore dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus ha lanciato un monito contro il “nazionalismo dei vaccini”. Un fenomeno non nuovo, che si era già manifestato in occasione della precedente pandemia, quella dell’influenza H1N1 nel 2009, rivelatasi poi meno grave di quanto ipotizzato in un primo momento. “Se i vaccini anti-Covid saranno mal distribuiti come accadde per l’influenza da virus H1N1 nel 2009, la pandemia rischia di durare più a lungo, più persone moriranno e le conseguenze saranno peggiori di quello che avrebbero potuto essere”, afferma Richard Hatchett, capo della Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi), un fondo basato a Oslo che è stato creato per finanziare e coordinare lo sviluppo di vaccini in caso di epidemie e che finora ha supportato nove vaccini anti-Covid.