In un’analisi dal titolo “Consultori e donne, la legge parla chiaro”, l’Avvenire sottolinea oggi che “continua a suscitare perplessità la decisione ministeriale di coinvolgere i consultori familiari nella pratica abortiva”. “La rete consultoriale nasce con la finalità esattamente opposta: fornire un’alternativa alle donne che pensano di trovarsi costrette dalle circostanze più varie a spegnere in grembo la vita del proprio bimbo – spiega infatti -.
È quanto emerge dalla legge 405 del 1975, che ha istituito i consultori”.
Secondo Avvenire, “la sua prospettiva risulta ben chiara fin dall’articolo 1, che tra gli scopi di queste strutture indica ‘la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento'”. “Attenzione – prosegue il giornale della Cei -: in tutti gli 8 articoli di cui si compone il testo l’interruzione di gravidanza non è mai prevista: si parla solo di contraccezione”. “È vero – continua -: la prima legge che ha consentito, in un numero di casi (almeno formalmente) ristretto, l’interruzione volontaria della gravidanza è la 194 del 1978, varata dunque 3 anni dopo quella che ha istituito i consultori.
Ma è altrettanto innegabile come anche questa seconda norma non abbia inteso chiedere la collaborazione di queste strutture per la soppressione del bimbo nel ventre della gestante. Anzi”.
“I consultori familiari – si legge all’articolo 2 – assistono la donna in stato di gravidanza (…) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”. “Proprio per raggiungere questo fine – spiega ancora Avvenire – la norma dispone che le stesse strutture ‘possono avvalersi (…) della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita'”. “L’obiettivo pratico sembra ben chiaro – aggiunge -: dal momento che le risorse economiche, anche allora, non bastavano a rimuovere i problemi in cui versavano e versano le gestanti, si dava e si dà la possibilità che i consultori si avvalgano della grande rete del volontariato, come quello grande e generoso che anima i Centri di aiuto alla vita”. “A fugare ogni dubbio circa le finalità di queste strutture – scrive ancora il quotidiano cattolico -, l’articolo 5 della stessa legge 194/78 dispone che esse, quando si trovano innanzi una donna che chiede l’interruzione volontaria della gravidanza, ‘hanno il compito in ogni caso (…) di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta (…) di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione di gravidanza'”. Allo stesso modo, “qualora la donna si rivolgesse al proprio medico, questo dovrebbe informarla «sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può fare ricorso, nonché sui consultori e le strutture socio-sanitarie”.
“E quand’anche tutto ciò fallisse, non restando altro se non la soppressione del feto”, conclude Avvenire, “la legge vietava e vieta al consultorio di fare da sé: l’aborto, infatti, può essere effettuato solo da una (diversa) struttura autorizzata.
Alterare questa disciplina con una semplice circolare – come fanno le nuove linee guida del Ministero della Salute che disciplinano il ricorso alla pillola abortiva -, e non attraverso una modifica parlamentare della legge vigente, darebbe vita a una violazione della Costituzione”.