Paolo Petroni (ANSA) – ROMA, 19 AGO – PIERRE MICHON, ”LA GRANDE BEUNE” (ADELPHI, pp. 76 – 11,00 euro – Traduzione di Giuseppe Girimonti Greco) Questo lungo, intenso racconto fantasia sul piacere doveva essere l’inizio di un romanzo mai compiuto intitolato ”L’origine dle mondo”, proprio come il celebre quadro di Gustave Courbet, del quale ha la stessa sfrontatezza, passione, se si vuole eccesso ma anche tutta l’inevitabile umanità, che ridimensiona e dà senso, grazie alla straordinaria abilità di Michon con la scrittura.
Lo scrittore francese, classe 1945, ha cominciato a pubblicare a 40 anni, esordendo con quelle ”Vite minuscole” che sono apparse subito un piccolo capolavoro, un gioco biografico e autobiografico a mosaico, di personaggi prigionieri del proprio destino e che solo nella verità e qualtià della scrittura, della letteratura trovano la propria verità e magari illuminano appunto la Storia. Sono vite in cui l’autore si cala, che abita e racconta mettendosi in gioco, come per rispecchiarsi in esse e trovarvi se stesso, come ogni lettore vi ritroverà qualcosa di sé. E lo fa appunto con una lingua ricca e letterariamente intarsiata, densa e dal ritmo intenso della cui bella resa in italiano bisogna dar lode al traduttore Girimonti Greco, che non ci fa perdere nemmeno una piega del racconto e del quotidiano e assieme delle fantasie, delle ossessioni, del vagabondare in seguito alla sensuale folgorazione dell’io narrante.
Si tratta di un maestro al suo primo incarico, mandato nel 1961 in una scuola elementare del borgo piovoso di Castelneuve, sul bordo della falesia sotto la quale scorre la Grande Beune, nel Perigord. Preso alloggio alla pensione Chez Hélène, dove la sera Jean il pescatore e altri personaggi si ritrovano a bere, affronta la scuola e, racconta, ”guardavo, lungo tutta una fila di attaccapanni,i loro giacconi appesi che ancora fumavano per le piogge del mattino, simili a paltò di un esercito nano che si asciugano in un bivacco”, ma anche, a ricreazione, ”mi sedevo alla cattedra, stendevo le gambe e mi davo a un’altra devozione, a un’altra violenza. Pensavo alla tabaccaia”, di cui ha in classe i figlio di sette ani Berenard, con cui finisce per prendersela.
Si tratta di Yvonne, tra i 30 e 40 anni,”alta e bianca era puro latte. Era abbondante e florida come le Uri di Lassù, vasta ma come strozzata dalla vita stretta; se gli animali hanno uno sguardo che non smentisce il loro corpo, era un animale; se le regine hanno un modo tutto loro di portare in cima alla colonna del collo una testa piena ma pura, clemente ma fatale, era una regina”. Un’apparizione esaltante che mette ”nel sangue pesieri abbominevoli” perché ”tutto in lei era conoscenza del piacere … e questo piacere era vivo come una ferita; lei lo sapeva, era qualcosa che portava con ardimento, con passione”.
E’ solo l’inizio di un’ossessione, travolgente e di una vitale pienezza di cui il maestro resta prigioniero: la sogna, la immagina, la segue e cerca di incontrarla nei suoi percorsi come casualmente, la spia tra fantasie e delusioni, non meno però esaltanti, quando ne scopre il segreto di una sua arrendevolezza. Chi ci va di mezzo è la povera e anche lei seducente ragazza Mado, con cui ha scomodi amplessi sui sedili della sua Dauphine, con sempre in mente l’altra.
Il paese è vicino alle celebri grotte di Lascaux, con i loro grafiti preistorici, così che al nostro quelle figure sciamaniche appaiono come un segno del destino in cui si perde il presente, il quotidiano, e tutto acquista la trascendenza di un simbolo, una valenza quasi mitica. E Yovonne gli appare come la Sibilla Cumana. Michon non costruisce una vera e propria storia, ma ci porta nella testa, e nei sensi del suo protagonista, ci coinvolge nella sua sensuale ossessione, con una scrittura che sembra tradizionale, qualcuno a scritto flaubertiana, ma vive di una sorta di scarto e accumulo, di articolazione che potrebbe diventare ridondante ma sempre lo evita per realismo, precisione e immediatezza. E in bilico tra realtà e fantasia la vita scorre, proprio come la Grande Beune.
(ANSA).
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