BOLOGNA – Finisce con un ‘pareggio’ senza condannati né assolti, né vincitori né vinti, il ‘Processo ai Vitelloni’ di Federico Fellini. Per la prima volta nella storia ventennale de ‘Il Processo’ – organizzato ogni 10 agosto a San Mauro Pascoli, nel Cesenate e che ha visto ‘alla sbarra’ figure come il ‘Passatore di Romagna’ e Benito Mussolini, Giuseppe Garibaldi e Pellegrino Artusi, persino Giulio Cesare – la giuria popolare non ha emesso un verdetto: 219 sono stati i voti per la condanna e altrettanti per l’assoluzione, in una platea di oltre 450 persone accorse alla ‘Torre’ pascoliana.
Così, al presidente del Tribunale, Gianfranco Miro Gori – storico ed esperto di cinema, ideatore del ‘Processo’ – non è rimasto altro che constatare la parità tra l’accusa, sostenuta dalla giornalista Daniela Preziosi, e la difesa, sostenuta da Gianfranco Angelucci, stretto collaboratore di Fellini.
Un inedito. Mai andato in scena tra i mattoni della ‘Torre’ – da sempre teatro del ‘Processo’ e luogo dal forte carico simbolico amministrato da Ruggero Pascoli, padre di Giovanni Pascoli, ucciso il 10 agosto del 1867 – malgrado gli sforzi profusi da accusa e difesa che si sono date battaglia, a colpi di parole taglienti ‘naufragate’ nel ‘non verdetto’ sancito dal pareggio.
“Non demonizzo il film che ha tanto ancora da dire – ha esordito l’accusatrice – ma la figura del Vitellone: un giovane di provincia, ozioso e indolente, che passa il tempo in divertimenti, privo di aspirazioni. Fellini ne prende le distanze e ci indica i capi di imputazione. Il grande regista è dunque il teste principale dell’accusa – ha argomentato Preziosi -. Ma se Fellini concede un’attenuante umana perché ‘tutti i peccati meritano comprensione’, per noi i Vitelloni restano un monumento alla peggio gioventù maschile”. Quindi, ha concluso, “sono personaggi irriscattabili, vanno condannati senza appello.
Salvo solo Moraldo, quello che alla fine del film se ne va. Il personaggio è Fellini, solo per lui chiedo l’assoluzione”.
A ribattere – inutilmente, col senno di poi – ci ha pensato il collaboratore di Fellini, Gianfranco Angelucci. “Io non difendo il Vitellone ma lo elogio – ha scandito -: è l’archetipo dilatato dell’Italia, un eroe del nostro tempo. La società ci rende ingranaggi di un sistema, il Vitellone esce dagli schemi.
È un non integrato, un individualista che risponde solo a se stesso, i legami del sangue vengono prima di tutto. È un sentimentale con le donne, le fa piangere ma lui piange insieme a loro”. Quindi, citando Flaiano, ha chiosato, “‘La bandiera dei Vitelloni è mi spezzo ma non mi impiego’ – diceva -: ecco, questa frase la faccio mia e proprio per questo vanno assolti”.
E nell’anno del centesimo compleanno di Federico Fellini, Gori – proprio in apertura di serata – ha ricordando la figura di Sergio Zavoli, recentemente scomparso e amico fraterno del maestro del Cinema. “Il suo humus è stato Rimini come per Fellini – ha detto – entrambi si allontanano dalla provincia e vanno a Roma, entrambi portano la città nel cuore. Adesso – ha concluso – riposano uno a fianco all’altro nella Rimini che hanno sempre amato”. (ANSA).
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