Amita indossa una maglia fucsia e si aggira tra le macerie della sua casa. E’ bengalese, ha 33 anni, e come molte sue connazionali si guadagna da vivere pulendo nelle case di Beirut. Ma qui a Karantina, favela poverissima che si affaccia sul porto distrutto nelle esplosioni del 4 agosto, Amita è conosciuta come “il sindaco”: conosce tutti e tenta di risolvere i problemi del quartiere.
E’ lei che mostra gli edifici più distrutti dalla furia della detonazione di martedì scorso: della sua casa è rimasto in piedi solo un divano con un cappello nero e i fiori rossi di stoffa.
Più in là due palazzine basse sono ridotte a un cumulo di pietre. Una scritta avverte: “Pericolo di crollo”.
A Karantina vivono i disperati di Beirut: libanesi, siriani, bengalesi, indiani, etiopi, palestinesi, cingalesi, tutti accomunati da un’estrema povertà e dall’assenza di prospettive.
L’aria è intrisa dal fumo di quel che brucia ancora nel porto distrutto e dall’odore acre del mattatoio, che per decenni ha dato da lavorare agli abitanti della zona. A due passi si apre il deposito dei rifiuti raccolti giornalmente a Beirut. Per gli ambientalisti è una delle aree più malsane di tutto il Libano.
Un palazzo è decorato con un mega-graffito di una variopinta maschera di gas.
La storia di Karantina è la quella di Beirut: nasce nel lontano 1815 come quarantena (da qui il nome, arabizzato) per ospitare i viaggiatori che arrivavano al porto quando nel nascente scalo mediterraneo tra la Siria e l’Europa.
Il quartiere è stato finora dimenticato dai soccorsi e dagli aiuti dei volontari, concentratisi invece nelle zone del centro cittadino. Sopra i capannoni di vecchi depositi si levano le gru del porto rimaste in piedi. Un gatto beve da una pozzanghera d’acqua sporca. Un ragazzo col braccio e la spalla ferita è seduto curvo sul suo cellulare.
Karantina è anche il luogo del massacro di palestinesi del “sabato nero” del 1976, quando le milizie cristiane trucidarono a più riprese centinaia di profughi (alcune fonti parlano di 1.500 uccisi). I palestinesi vi erano arrivati nel 1948, cacciati dal neonato Israele.
Prima di loro si erano rifugiati a Karantina i curdi dall’Iraq di Saddam. E prima ancora, tra il 1915 e il 1922, gli armeni in fuga dai massacri in Turchia. Sette anni fa, il quartiere è diventato rifugio di migliaia di siriani scappati dalla guerra nel loro paese.
L’ospedale pubblico di Karantina è un fantasma, travolto dai detriti. Una sua ala, ora distrutta, era stata attrezzata alla fine degli anni ’90 dagli aiuti del governo italiano. Accanto si erge il deposito del ministero della sanità, dove erano stoccati i medicinali per curare malati di cancro. Anche questo è distrutto. Danneggiata è anche la modesta moschea, di origine ottomana ma già distrutta dalla guerra civile (1975-90).
Amita continua ad aggirarsi tra i palazzi con la sua maglia fucsia. E chiede alle famiglie rimaste se hanno bisogno di qualcosa. Due giovani si guardano attorno su un cumulo di macerie. Un giovane, con la bandiera libanese, va in piazza a protestare contro il governo. (ANSA).
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