Si vedono a malapena nella Beirut devastata dall’esplosione di martedì gli uomini dell’esercito e della protezione civile libanese, mentre i quartieri più colpiti sono invasi da un esercito di volontari, per lo più giovani, armati di scope, pale e badili per sgomberare le macerie, rimuovere una quantità mai vista di vetri e lamiere precipitati dai palazzi danneggiati sulle auto, sui marciapiedi, sugli alberi abbattuti.
Questi giovani, gli stessi che la sera affollavano i bar e i locali del centro di Beirut ora distrutti, vogliono proseguire la “rivoluzione” contro il sistema politico. Sono infatti gli stessi manifestanti da ottobre scorso in piazza per chiedere “la fine del sistema regime” clientelare al potere in Libano da decenni. Si sono riversati sin dalle prime ore dopo il disastro per sostenere chi è rimasto in vita e ha bisogno di tornare a una sembianza di normalità. Una donna anziana affacciata al balcone di un palazzo disastrato nella zona di Mar Mikhail chiede ai ragazzi di salire da lei per essere aiutata: “Sono da sola, tutte le finestre sono distrutte. Ho vetri dappertutto ma non posso usare il braccio”.
Lungo la scalinata del Vendome – così chiamata in ricordo di un omonimo vecchio cinema della Beirut degli anni d’oro – tra i più affollati di Beirut, il ministro dell’economia Raoul Nehme, membro del partito del presidente della Repubblica, si aggira con la scorta per rassicurare le famiglie dei palazzi più danneggiati.
Un signore anziano, in pantaloncini e canottiera si rivolge al ministro in maniera polemica: “Io la aspetto qui, fino a quando non realizza le promesse!”. Più rabbiosa la reazione dei manifestanti nel vicino quartiere di Gemmayze contro un altro ministro, quello della giustizia Marie-Claude Najem, impegnata in un tour nelle zone del disastro: le persone assiepate in strada hanno bloccato il suo passaggio con cori esplicitamente offensivi.
In cima alla collina di Ashrafiye, vicino all’ospedale San Giorgio, di fatto reso inagibile dai danni dell’esplosione, un gruppo di volontari giunti da Tripoli, porto nel nord del paese, grida: “Siamo con te Beirut! Tripoli porta le sue braccia!”.
Altri volontari locali applaudono.
Altri ancora distribuiscono bottiglie e panini sotto un gazebo allestito di fronte al Palazzo della Società elettrica, simbolo della corruzione e dei disservizi, ora reso uno scheletro di cemento dalla forza d’urto dell’esplosione avvenuta al porto, a poche centinaia di metri.
“Siamo tornati indietro di 40 anni”, si dispera Joseph, un signore intento a ripulire quel che rimane del suo negozio, riferendosi ai tristi anni della guerra civile (1975-90). “Non ci rimane più niente”.
E su un muro ricoperto da vetri e ferraglie, appare un murales dipinto durante le proteste anti-governative ma oggi ancor più attuale: “Suicidio” è la scritta sopra all’immagine di un corpo che pende da una corda.
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