A poche ore dalla decisione di
un tribunale di Varanasi che ha autorizzato lo svolgimento delle
preghiere indù (‘puja’) nei sotterranei del lato sud della
moschea Gyanvapi, gruppi di fedeli sono entrati la notte scorsa
con un sacerdote induista e hanno seguito un rito, anticipando
così il permesso ottenuto, che avrebbe dovuto diventare
effettivo solo tra sette giorni.
Immediate le reazioni: la stessa Corte Suprema ha invitato il
comitato dell’Anjuman Intezamia Masjid, che gestisce la moschea,
a fare immediato ricorso all’Alta Corte dello Stato dell’Uttar
Pradesh contro questa violazione, mentre, tra i politici,
Akhilesh Yadav, leader del partito SP, Samajwadi Party, ha
scritto su X che “questo è un palese tentativo di impedire coi
fatti il ricorso alla legge”.
L’autorizzazione di ieri, che aveva già suscitato reazioni
critiche e preoccupazioni, è stata concessa da un tribunale di
Varanasi dopo che l’Archeological Survey of India, la
Sovrintendenza alle Belle Arti indiana, ha affermato che la
moschea è stata costruita sopra un pre-esistente tempio
induista.
Il dettaglio architettonico della moschea che ha dato origine
alle rivendicazioni degli induisti è un bacile di pietra che, a
loro dire, sarebbe uno “Shiva lingam”, l’oggetto che rappresenta
il dio indù Shiva, mentre secondo il comitato che gestisce la
moschea non è altro che un bacile per le abluzioni.
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