Questo settembre abbiamo commemorato l’anniversario di un evento tragico: la prematura scomparsa di Mahsa Amini, una giovane donna a cui il regime iraniano ha tolto brutalmente la vita. La sua morte straziante ha scatenato un’ondata di proteste che ha attraversato l’Iran, mettendo in luce le profonde questioni della disuguaglianza di genere e le politiche oppressive del governo autocratico – scrive Turkan Bozkurt.
La vita di Mahsa è stata stroncata mentre si trovava sotto la custodia della polizia, ricordando le ingiustizie subite dalle donne, in particolare nei casi legati all’hijab. La sua storia ha oltrepassato i confini, risuonando con le persone di tutto il mondo e scatenando un forte appello globale alla giustizia e a un rinnovato impegno per i principi fondamentali dei diritti umani.
In effetti, le proteste e l’attivismo in Iran possono non aver portato a un completo rovesciamento del governo, ma hanno innegabilmente illuminato un profondo desiderio di cambiamento all’interno del Paese. Queste manifestazioni hanno messo in luce una significativa divergenza tra le aspirazioni e i valori culturali del popolo iraniano e le politiche del governo. Il desiderio di cambiamento e la richiesta di maggiori libertà sociali e politiche sono potenti indicatori del panorama in evoluzione in Iran. La solidarietà globale per i diritti delle donne trova una notevole incarnazione nel recente successo di Narges Mohammadi, attivista azero-iraniana, insignita del Premio Nobel per la pace per i suoi significativi contributi nel campo dei diritti umani.
L’intricato quadro giuridico iraniano favorisce un sistema oppressivo in cui le donne non solo sono tenute a sottomettersi agli uomini, ma spesso viene loro negato il pieno riconoscimento come individui capaci. Come ampiamente illustrato, le leggi sull’hijab obbligatorio vietano alle donne l’autonomia corporea. Le donne ricevono la metà della quota di eredità che ricevono gli uomini. In caso di divorzio, la legge iraniana generalmente concede la custodia dei figli ai padri, anche se non è nell’interesse del bambino, il che costringe anche le donne a rimanere in relazioni abusive. Le donne hanno bisogno del permesso scritto dei loro tutori maschili (padre o marito) per viaggiare. Queste norme e pratiche relegano collettivamente le donne in una posizione di inferiorità, perpetuando l’idea che siano incapaci di prendere decisioni razionali riguardo al proprio corpo, alla propria vita e al proprio futuro.
Oltre alle misure oppressive già esistenti, abbiamo purtroppo assistito anche alla punizione delle studentesse nelle scuole. I difensori dei diritti umani hanno documentato l’avvelenamento delle studentesse nelle scuole di tutto il Paese in seguito alle proteste. Sebbene le motivazioni alla base di questi attacchi rimangano avvolte nell’incertezza, alcuni ipotizzano che possano essere una tattica deliberata impiegata dal governo per propagare la pressione sociale e la paura. A prescindere dall’identità degli autori, questi atti di punizione collettiva hanno instillato un clima di paura pervasivo nella società iraniana, in particolare tra le ragazze. Questi eventi sottolineano una grave mancanza di responsabilità da parte del governo, anche se non sono stati orchestrati intenzionalmente come misure punitive. In effetti, è profondamente preoccupante che le ragazze non siano al sicuro nemmeno all’interno dei loro istituti scolastici. È essenziale che tutte le studentesse possano accedere all’istruzione in un ambiente sicuro e accogliente che promuova il loro benessere fisico ed emotivo.
Sebbene sia innegabile che queste leggi impongano catene di sottomissione a tutte le donne, è fondamentale riconoscere che il loro impatto varia significativamente in base all’intersezione delle loro identità. Per comprendere veramente la portata dell’oppressione di un individuo, dobbiamo considerare la natura sfaccettata della sua identità e analizzare la lotta attraverso una prospettiva femminista intersezionale come quella delineata da Kimberly Crenshaw. Fattori come il genere, la classe, l’etnia, la religione, la sessualità, l’età e altri elementi identificativi giocano tutti un ruolo fondamentale nel plasmare la qualità della vita e delle esperienze di ciascuno.
Per esempio, durante le proteste, la questione dell’hijab obbligatorio ha ricevuto un’attenzione notevole. Sebbene si tratti di un problema importante che riguarda tutte le donne iraniane, assume un’urgenza particolare per le donne delle classi sociali più elevate. Ciò illustra come i diversi aspetti dell’identità si intersechino e diano priorità a determinate questioni per gruppi specifici nell’ambito della più ampia lotta per i diritti delle donne.
Esaminando questa metrica, risulta evidente che, mentre la questione dell’hijab obbligatorio ha indubbiamente un impatto su ogni donna in Iran, esiste uno spettro di problemi altrettanto cruciali, se non più urgenti, che sono stati spesso trascurati o sottovalutati. Questi problemi abbracciano un’ampia gamma di argomenti critici, tra cui i delitti d’onore, le spose bambine, l’accesso all’istruzione e persino questioni ambientali come l’accesso all’acqua e al cibo che esacerbano le disuguaglianze esistenti.
Per illustrare questo punto, Farzaneh Mehdizadeh, direttore generale dell’Ufficio esami clinici dell’Organizzazione di medicina legale, ha annunciato che nel 2022 75.000 donne e bambini si sono rivolti alla medicina legale a causa di lesioni fisiche causate dalla violenza domestica. Questo dato straziante ci ricorda che il discorso sulla discriminazione delle donne in Iran deve andare ben oltre la sola questione dell’hijab.
Poiché l’Iran vanta un ricco arazzo di diversità etnica, è imperativo integrare le identità etniche delle donne nel nostro quadro analitico. Le leggi e la retorica del Paese hanno spesso inglobato politiche identitarie, rendendo necessario un esame olistico. Durante le proteste, il nostro gruppo di iniziativa di Etekyazi è stato in grado di raccogliere dati sufficienti e di pubblicare rapporti quantitativi trimestrali sui manifestanti arrestati e uccisi, di cui una parte significativa erano donne e molti bambini minorenni. Infatti, il 14% delle morti complessive erano bambini, come la sedicenne Sarina Esmailzadeh, la quindicenne Asra Panahi, uccisa nella sua scuola, e la tredicenne Neda Bayat, il cui arresto è stato segnato da indicibili brutalità, culminate nella sua prematura scomparsa a causa delle gravi ferite inflittele durante la detenzione.
In Iran, le donne azere la cui prima lingua non è il farsi (persiano) devono spesso affrontare sfide uniche all’interno del sistema legale iraniano a causa delle differenze linguistiche e culturali. Queste sfide comprendono una serie di questioni, dalla complessità pratica di parlare in farsi e comunicare efficacemente con le autorità e i funzionari alla profonda difficoltà di accedere ai servizi legali e di comprendere la documentazione legale. L’uso ufficiale del persiano nel sistema giuridico iraniano amplifica queste difficoltà, in particolare per le donne azere che provengono da città più piccole o da zone rurali dove la conoscenza del farsi è limitata. Ciò sottolinea l’intersezione critica tra l’accessibilità all’istruzione e la capacità di una donna di salvaguardare i propri diritti e interessi durante i procedimenti legali.
Al di fuori dell’Iran, l’attenzione alla sottorappresentazione delle donne azere nei media occidentali è un punto cruciale da sottolineare. È essenziale riconoscere e sfidare gli stereotipi e i pregiudizi che possono portare all’omissione di alcuni gruppi etnici all’interno di discussioni più ampie sui diritti delle donne e sulla discriminazione in Iran. La stigmatizzazione delle donne azere come spettatrici passive o la cancellazione della loro identità etnica non solo da parte del governo iraniano, ma anche da parte di elementi dell’opposizione centrista iraniana è una questione preoccupante che merita attenzione. A dimostrazione di questa omissione, mentre è diventato palesemente chiaro che Mahsa Amini era curda e Faezeh Barahui era baluci, un altro nome famoso Hadis Najafi, che era azera, non è stato indicato con la sua etnia. O Elnaz Rekabi, scalatrice internazionale che si è tolta l’hijab in Corea del Sud come forma di protesta e sostegno alle sue sorelle, la sua origine etnica è stata omessa nei resoconti e negli articoli dei media.
È importante portare avanti le storie e le esperienze delle donne di tutte le origini etniche in Iran per fornire una comprensione più completa delle sfide che devono affrontare e per contrastare gli stereotipi e i pregiudizi che possono ostacolare il progresso verso la parità di genere e i diritti umani. Ciò include il riconoscimento dei diversi modi in cui le donne in Iran, comprese quelle azere, si impegnano nell’attivismo e nella difesa dei loro diritti e del benessere delle loro comunità.
L’esempio della mobilitazione delle donne azere per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’evitabile disastro ecologico del lago di Urmia sottolinea l’importanza di riconoscere le sfide uniche affrontate dai diversi gruppi della società iraniana. I loro sforzi per attirare l’attenzione su tali questioni critiche non dovrebbero passare inosservati e i media dovrebbero sforzarsi di fornire una copertura equa per garantire che le loro voci siano ascoltate. La mancanza di copertura dell’arresto di influenti scrittrici azere come Ruqeyye Kabiri e Nigar Xiyavi in seguito al loro attivismo serve a ricordare le sfide affrontate dalle donne azere, discriminate non solo in base al loro genere ma anche al loro background etnico. Sottolinea inoltre la necessità di approcci intersezionali che considerino non solo il genere, ma anche l’etnia, la classe e altri fattori quando si affrontano le disuguaglianze e si difendono i diritti umani. Incorporare una gamma diversificata di voci ed esperienze nella copertura mediatica e negli sforzi di advocacy è fondamentale per promuovere una rappresentazione più inclusiva e accurata delle lotte e delle conquiste delle donne in Iran e non solo.
Informazioni sull’autore:
Turkan Bozkurt è una paralegale, ricercatrice e attivista per i diritti umani che si occupa di diritti delle minoranze da una prospettiva femminista intersezionale. Conduce ricerche comparative sull’oppressione coloniale e lo sfruttamento dei BIPOC in Nord America e sulle questioni relative alle minoranze in Iran. È anche una studentessa di filosofia giuridica.
