L’uomo che cammina sui pezzi di vetro ha lo sguardo fisso verso il vuoto. E si aggira in quello che è ormai il ‘ground zero’ fisico di Beirut, il luogo spettrale e ricoperto di polvere grigia, investito dalla potentissima esplosione di martedì pomeriggio. Quello che era il porto di uno dei più importanti scali del Levante è distrutto.
Ma il ‘ground zero’ di un intero paese “fallito”, così come lo aveva definito pochi giorni fa l’ormai ex ministro degli esteri Nassif Hitti, non è solo l’enorme pozza d’acqua che ora occupa il cratere causato dalla deflagrazione di sostanze chimiche colpevolmente stoccate in mezzo alla città.
Il ground zero è un Libano che non c’è più. “Incidente” o “attentato” che sia, nessuno può dirlo. Ma questa tragedia, dalle proporzioni ancora tutte da misurare, costituisce il colpo mortale a un paese già in ginocchio per il collasso economico, il default finanziario, il fallimento di un sistema politico da più parti definito “mafioso” e “insaziabile”.
Con questa esplosione il Libano non ha perso solo il porto – l’accesso privilegiato per le merci e gli aiuti al paese e alla vicina Siria – ma la sua principale riserva di grano. L’uomo che si aggira con lo sguardo vuoto alla ricerca del suo collega, un camionista ancora disperso, osserva incredulo i cumuli di quello che fino a ieri erano tonnellate di grano dei silos del porto.
Attorno alla membrana sventrata dei granai c’è un cimitero di gru: quelle che ora sembrano giraffe incenerite col collo a terra fino a martedì e per anni hanno ornato la linea dell’orizzonte mediterraneo in quell’angolo di Beirut.
L’orizzonte è ora puntellato da carcasse di navi, scheletri dei capannoni. La zona fieristica di fronte al porto, altro fiore all’occhiello della Beirut ricostruita dopo la guerra civile (1975-90), è un tappeto di lamiere a terra, come carte da gioco spazzate via da una folata di vento. E risalendo verso l’interno della città lo sguardo sale a quel che rimane del Palazzo della Società elettrica: simbolo di un servizio di base che non c’è.
La corrente è razionata da decenni in Libano. Ma in queste ultime settimane di caldo torrido, l’assenza di combustibile per alimentare le centrali elettriche aveva spinto la Società elettrica a ridurre ulteriormente la fornitura di corrente. Il paese non ha riserve di dollari sufficienti per pagare l’importazione di combustibile per far fronte alla necessità di elettricità di un paese ricco di risorse d’acqua e grande quanto l’Abruzzo.
Nel vicino quartiere Karantina – così chiamato perché sorto cento anni fa come prima quarantena sanitaria della regione – la disperazione è totale. Questa bidonville di miseria è stata la prima zona densamente popolata a esser investita dall’onda d’urto: il numero di morti e feriti è tra i più alti della città.
E il ministero della Sanità ha reso noto che i depositi di medicinali e di attrezzature, accumulate anche per far fronte all’emergenza Covid, sono stati pesantemente danneggiati. Si trovavano proprio a Karantina, a due passi dal porto.
“Siamo maledetti, siamo un paese di maledetti”, ripete all’infinito un signore di mezza età che cerca di farsi strada tra le macerie di un palazzo di Geitawi, quartiere popolare sopra al porto. Parti intere di palazzi mal costruiti sono caduti a terra, distruggendo le auto parcheggiate, seminando vittime. C’è chi corre gridando il nome di un proprio familiare che non risponde. E un bambino, illeso e con in mano ancora un pezzo di Lego, guarda attorno l’inferno attorno a sé e chiede al padre: “Ma siamo morti?”.